Il culmine di un processo di liberazione
Pix 07
2005
stampa Fine Art su carta Canson
cm 60 x 90
ed 2/3
Esiste una contraddizione più insanabile di quella racchiusa nei binomi arte-tirannide, arte-guerra, arte-sfruttamento? Ce l’hanno raccontato le Avanguardie storiche che l’arte è prima di tutto libertà. Una libertà il cui significato originario, che la vorrebbe coniugata al verbo della giustizia, da tempo è stato fatto a pezzi, cancellato e sostituito con un’altra cosa: l’idea che essere liberi significhi solo poter consumare.
Un elmetto, una pistola, un berretto, un paio di anfibi, una mimetica, un paio di manette e un proiettile, infine, bruciano lentamente consumandosi inghiottiti da lingue di fuoco. Un elemento primordiale, come il fuoco, fa giustizia di questi oggetti-simbolo di violenza e di coercizione.
Fabio De Benedettis impressiona su pellicola fotografica la rappresentazione di quello che lui ritiene il culmine di un processo di liber-azione. Sette scatti sgranati impressi su superficie pigmentata in bianco e nero.
Alberto Burri non amava Duchamp. Lo accusava di aver rotto il giocattolo dell’arte il cui funzionamento si basa sull’equilibrio di tre elementi almeno: idea, forma e materia. La separazione di questi tre elementi e/o l’esasperazione del ruolo di uno sugli altri, avrebbe condotto a pericolosi cedimenti.
Di certo la lezione di Burri non può aver lasciato indifferente il giovane fotografo romano che prende ispirazione, tuttavia, anche da una pratica concettuale debitrice di Duchamp.
L’obiettivo del fotografo registra il fenomeno e lo interpreta: fare terra bruciata dei simboli fallaci (fallici) che il senso comune vorrebbe come sentinelle della nostra sicurezza. Non c’è sicurezza fin quando c’è violenza e guerra. Sicurezza significa considerare gli uomini “un esercito di eguali”, a prescindere dal colore della pelle, dal credo religioso e dalla possibilità di partecipare al rito collettivo del consumo.
E allora il pensiero schizza ai fatti di Genova, alla guerra in Iraq, alle bombe a Nassirya, alle armi nei ghetti, all’orrore di New Orleans. Vola ai barconi dei disperati che vanno a fondo a poche centinaia di metri dalla terra e a quelli che, salvati dal naufragio, vengono rifocillati prima di essere ingabbiati. Agli scarponi dei militari di tutte le guerre che calpestano con suole seghettate una terra che non è la loro, lasciando impronte che vorremmo cancellate, bruciate. Vicino e lontano. Ieri, oggi e domani. A partire, magari, dalle pareti della galleria Horti Lamiani-Bettivò.
Valentina Gramiccia